All’inizio c’è una lunga sfilata di motociclette e automobili che passano per strada secondo una logica incomprensibile. Poi c’è una risacca di calma e di silenzio che dura un po’ di minuti. Poi arriva l’auto di inizio corsa che fa da preludio alla frenesia, al rumore e alla polvere del gruppo, ci sono altre auto e motociclette che passano veloci una dietro l’altra e poi infine, eccoli i corridori, diluiti nel caos e nella confusione generale. Il vero spettacolo a ben guardare, dura pochi secondi in tutto.
Tutto quello che possiamo testimoniare in prima persona a una corsa ciclistica è un tratto di strada lungo al massimo qualche centinaio di metri, lo spazio del nostro sguardo più quel che possiamo aggiungere con il movimento della testa di lato. Tutto il resto, è racconto.
Le gare di ciclismo sono quasi soltanto narrazione. Accade tutto nelle nostre teste, è una architettura all'interno delle nostre menti. Se analizziamo razionalmente le corse per quello che sono, il ciclismo sono uomini o donne che passano in bicicletta per strada. Più la strada è ripida o malconcia e più la bicicletta fa fatica ad avanzare, più troviamo lo spettacolo interessante.
Se il ciclismo fosse soltanto la Parigi-Roubaix o Le Strade Bianche però, faremmo fatica a chiamarlo sport. I corridori raccontano di come il corpo ci metta settimane a riprendersi dopo la gara, con i dolori che pulsano fino alle ossa. Questo indolenzimento è riservato solo ai più fortunati, quelli che non cadono e non si infortunano gravemente. Per molti corridori queste cadute possono essere la fine della stagione.
Allora perché amiamo queste gare? Perché i corridori sognano di vincere un trofeo che non è altro che un cubo di pietra? Qual è il senso di tutto questo?
Il senso, siamo noi.
La sopravvivenza del genere umano è affidata al racconto, alla capacità di ciascuno di noi di immaginare l’invisibile e credere in narrazioni condivise: stati, religioni, moneta, mercati finanziari, unioni, libri, film, serie televisive, persino i diritti umani. E il ciclismo, ovviamente. Queste – tutte – sono narrazioni che ci permettono di pensare, condividere e comunicare attraverso interazioni e dinamiche altrimenti impossibili da concepire. Senza il proprio racconto il ciclismo, non esisterebbe.
C'è un motivo per cui i corridori scelgono di fare la doccia nei vecchi bagni degli spogliatoi del velodromo di Roubaix quando hanno terminato la gara, anche se dispongono di docce molto più comode nei bus delle proprie squadre: lo fanno perché il ciclismo è un contenitore dentro a cui ciascuno di noi pensa. L’immaginario collettivo va costruito, mantenuto e curato e ciascuno ha un proprio ruolo da svolgere.
Quello di cui il ciclismo ha bisogno non sono i watt e nemmeno i soldi degli sponsor, ma le parole. Quando pronunciate quella famosa frase di Felice Gimondi ‘poche chiacchiere, testa bassa e menare’ provate a pensare che dentro c’è tutto il bello e anche il brutto del ciclismo. Da una parte la sublimazione della fatica, l’abnegazione e la concretezza; dall’altra la rinuncia al dire, il vuoto di parole, forse perfino un po’ di omertà.
Senza la capacità dell'Homo sapiens di credere in finzioni condivise lo sport professionistico non esisterebbe. Per avere delle storie da condividere non bastano delle corse leggendarie, le salite, il pavé, il fango, la fatica, i campioni, le vittorie. Serve anche da una parte la disponibilità a raccontare e dall’altra quella di ascoltare, guardare, leggere, provare a capire.
Godetevi lo spettacolo questo weekend e ricordate: non siete soltanto spettatori, siete ciclisti e siete parte del racconto. Fate la vostra parte, il ciclismo ne ha bisogno.
Immagine di copertina: Getty Images