Di Emilio Previtali
Il chilometro zero della terza tappa del Giro d’Italia è stato superato da qualche minuto e il gruppo avanza compatto a velocità regolare occupando tutta la sede stradale. Oggi in programma ci sono 213 km e i primi 170 circa non presentano difficoltà altimetriche significative, non una bella notizia per gli atleti e nemmeno per lo spettacolo (se siete tra quelli che domenica hanno avuto la pazienza di sciropparsi tutte le 4h55’ di gara in diretta TV, sapete a cosa mi riferisco).
Escono dal gruppo due corridori e si lanciano in avanti. Sono entrambi della stessa squadra e se ne vanno via semplicemente allungando, senza sprintare - queste le prime due anomalie. Terza anomalia: nessun altro corridore si accoda all’iniziativa. Il gruppo lascia fare e ignora completamente i due. Inquadrato in primo piano, con il gruppo ad andatura regolare sullo sfondo, uno dei due fuggitivi fa una smorfia che dice, più o meno: ‘che idea del cacchio abbiamo avuto'.
Alexander Konychev e Veljko Stonić del team Corratec Selle Italia - questi i due atleti - fanno un onorevole lavoro e accumulano un vantaggio che dopo 113 km in cronocoppia raggiunge il 1’51”. Ai meno 49 km dal traguardo Konychev e Stonić hanno ancora 2’00” di vantaggio ed è a questo punto che prima la Trek-Segafredo di Mads Pedersen e poi il Team Jayco-AlUla di Michael Mattews iniziano il forcing. Konychev e Stonić vengono raggiunti e saltati ai meno 37 km all’arrivo, a quel punto la corsa inizia a accendersi. È il campione italiano Filippo Zana a fare la selezione sul Valico dei Laghi di Monticchio e poi sul Valico La Croce, uno dopo l’altro molti corridori si staccano, non soltanto velocisti.
Fino a qualche anno fa nelle fughe ai grandi giri qualcuno ci credeva, anche tra le squadre World Tour. Capitava più che qualche volta che i fuggitivi riuscissero ad arrivare al traguardo. Oggi, nell’era del controllo totale della corsa, nell’era della selezione finale e dell’ultima ora e mezza pedalata come se non ci fosse un domani, non capita quasi più. Le fughe che possono andare a buon fine sono merce sempre più rara. Stiamo per assistere alla scomparsa delle fughe? Non è che con questo tipo di ciclismo ai grandi giri le tappe interlocutorie o quelle per i velocisti sono diventate troppo lunghe?
Silvio Martinello ieri, in un post sulla sua pagina Facebook, faceva notare che da inizio stagione fino alla Liegi-Bastogne-Liegi si sono disputate 53 gare del calendario WorldTour, più 6 corse a tappe con una classifica generale da calcolare a parte. Il bilancio delle vittorie è piuttosto esplicito:
- 4 squadre (Jumbo-Visma, UAE, Soudal-Quick Step e Alpecin) si sono spartite 44 successi dei 59 assegnati.
- 9 squadre messe insieme (Ineos, Bora, Jayco, Bahrain, Trek, Cofidis, EF, DSM, Movistar) hanno vinto in totale 15 corse;
- 5 squadre ( Groupama, Arkea, AG2R, Astana e Intermarche) non hanno ancora raccolto una vittoria
Forse se vogliamo un ciclismo veramente moderno, delle gare più aperte e combattute e - diciamolo - anche meno noiose da guardare in TV, qualcosa va cambiato. In gioco c’è la credibilità dello sport e dei grandi giri. Agli atleti non si può chiedere di gareggiare sempre a tutto gas, in tutte le tappe, dal primo all’ultimo chilometro. Viene da chiedersi - anche in ottica sostenibilità - se ha senso in tappe interlocutorie come quella di oggi o quella di domenica, tenere in piedi una diretta integrale di alcune ore in cui, in fin dei conti, non succede e non può succedere niente, a parte qualche caduta che vorremmo non vedere. Forse no, non ne vale la pena.
Per la cronaca, Michael Matthews del Team Jayco-AlUla si è aggiudicato la gara in volata davanti a Mads Pedersen della Trek-Segafredo e a Kaden Groves della Alpecin-Deuceuninck, ma questo lo saprete già, a questo punto. Quello che forse non sapete è che perfino Remco Evenepoel in un’intervista del dopo gara, a Melfi, ha confessato che probabilmente intestardirsi a voler difendere la Maglia Rosa a tutti i costi, con tappe come queste, potrebbe essere fatica sprecata per lui e per i suoi compagni di squadra.
E se lo dice lui, forse, c’è da credergli.