Chiunque sa qualcosa di alpinismo, sa che gli alpinisti svolgono la loro attività tenendo conto di due tipi di rischio diversi: oggettivi e soggettivi. I rischi oggettivi sono quelli per i quali non puoi fare nulla, esterni al tuo controllo, come ad esempio il distacco di una valanga spontanea o la caduta di sassi in un dato momento in un dato luogo, dovuta a un crollo o a un cedimento della parete. Se deve succedere, succede.
I rischi soggettivi invece sono quelli che hanno a che fare con sé stessi e il proprio agire: se una valanga si stacca sotto il nostro peso e siamo noi quindi a provocarla, perché incautamente ci spingiamo su un terreno in quel momento inadatto a ricevere la nostra presenza, quello è un rischio soggettivo. Soggettivi sono tutti i rischi che dipendono da noi e dal nostro agire, dalla nostra presenza, indirettamente dai nostri errori di valutazione e dalle nostre scelte.
C'è una ulteriore distinzione di cui gli alpinisti tengono conto, la differenza tra pericolo e rischio: il pericolo ha a che fare con il potenziale negativo di un determinato oggetto o luogo o attrezzatura, o situazione. Il rischio invece, suddiviso in livelli, ha a che fare con il grado di relazione con il pericolo che intendiamo accettare. Facciamo qualche esempio: la parete nord dell'Eiger è potenzialmente più pericolosa del Monte Stella a Milano, una motocicletta è potenzialmente più pericolosa di un automobile, una lama di acciaio ben affilata è oggettivamente più pericolosa di un un coltello di plastica.
Certo è che se vogliamo affettare una bella bistecca fiorentina, godere del panorama dell'Oberland Bernese dalla vetta dell'Eiger oppure divertirci in sella a una motocicletta, qualche rischio dobbiamo pur prendercelo: quello di usare una lama affilata, di scalare l'Eiger o di scegliere una motocicletta al posto di un'auto, ad esempio.
Eccoci al punto: i rischi possono essere classificati in vari modi ma in alpinismo si distinguono essenzialmente in due tipi: quelli che accettiamo di correre e quelli che rifiutiamo. Ognuno ha i suoi parametri ovviamente e se più o meno tutte le persone adulte sono disposte ad accettare il rischio di maneggiare un coltello a tavola, non necessariamente tutte le persone sono disposte a correre i pericoli connessi con la scalata di una montagna o del motociclismo.
Un problema supplementare riguarda il soggetto che subisce le conseguenze - cioè l'eventuale danno - di un determinato rischio: lascereste in mano un coltello affilato a vostro figlio piccolo? Quello che è un rischio accettabile per lui ( a tutti i bambini piace giocare con i coltelli) non lo è probabilmente per voi. E perfortuna, questo significa che siete dei genitori responsabili.
Quello che segna la differenza essenziale tra le persone nel decidere se considerare un rischio accettabile oppure no è un sistema di valori, in parte personale e in parte condiviso, basato sulla nostra cultura, sulle nostre aspettative, sui nostri desideri, sulle nostre responsabilità e sulla consapevolezza. In una parola sola, quello che ci mette in condizione di accettare eventuali conseguenze dei rischi che corriamo è la libertà di scegliere se correrli o no, questi rischi.
Proviamo adesso a spostare queste considerazioni verso qualcosa di complesso e soprattutto diverso, come le corse in bicicletta. Ieri al Giro d'Italia in un finale di gara nervoso e complicato, tre atleti hanno finito la loro corsa all'ospedale andando a sbattere a 60 km/h contro un palo di metallo in mezzo alla strada su un isola spartitraffico e ponendo fine alla loro gara. Mesi di lavoro, preparazione, allenamento, oltre al rischio di conseguenze ancora più gravi, andati in fumo in una frazione di secondo.
"Il patatrac succede a quattro chilometri e mezzo dalla fine. - si legge sulla Gazzetta dello Sport di stamattina - Aiuola spartitraffico, il gruppo lanciato sfila quasi a 60 all'ora un po' a sinistra e un po' a destra. Joe Dombrowski però passa troppo vicino a quel punto, ben indicato, probabilmente ingannato dalla manovra di un compagno davanti a lui che ha "scartato" all'ultimo istante. E cade, impattando contro un segnalatore sul posto. Un "volo" che coinvolge l'incolpevole Mikel Landa: pure il basco finisce sull'asfalto, diversi metri più avanti rispetto all'impatto".
A leggere l'articolo l'impressione è un po' quella che si riceve di solito quando alle corse succede un incidente grave: la colpa è degli atleti, sempre. Scrivere "un incolpevole Landa" è un colpo di sponda che genera nei lettori la sensazione che il colpevole invece sia Dombrowski, che se davvero ha una colpa, è quella di essere finito a 60 allora contro un segnalatore prima e contro un palo poi che si trovavano in mezzo alla strada.
Ostacolo "ben indicato" ancora si scrive, come se indicare bene il centesimo palo della serie posto in mezzo alla strada in un finale inadatto e rischioso (non semplicemente pericoloso) fosse sufficiente.
Una serie di isole spartitraffico, strettoie, ostacoli, dossi rallenta-traffico, pali metallici praticamente ovunque, anche se ben segnalati, con corridori che scartano e si sorpassano e si spingono alla ricerca di una buona posizione per lo sprint, a 60 km/h, sono un rischio accettabile? Per gli organizzatori evidentemente sì e su questo nessuno avrebbe da discutere o da dire se se le conseguenze in caso di incidente ricadessero su di loro.
Il problema qui è che le conseguenze ricadono interamente sui corridori, nella giornata di ieri nello specifico su Landa, Sivakov e Dombrowski, che sono finiti fuori corsa. Oggi i primi due non ripartiranno e si trovano in ospedale. Ve lo ricordate l'esempio della lama di metallo in mano a vostro figlio? Qui forse ai corridori, si vuole un po' meno bene.
Il problema di cui dobbiamo occuparci quindi ha a che fare non genericamente con le condizioni delle strade italiane e con la dinamica delle corse ma più precisamente con la libertà di scegliere e di decidere, che una volta in gara ai corridori viene totalmente a mancare. Sono gli organizzatori a doversi prendere cura, in ogni modo possibile e immaginabile, della sicurezza e della salute dei corridori e ieri questo, non è avvenuto. Sicurezza non significa posizionare segnalatori o materassi in mezzo alla strada ma piuttosto scegliere per un arrivo in volata un tratto finale di tappa che ragionevolmente possa consentire ai corridori di confrontarsi con sportività e correttezza, correndo dei rischi non totalmente eliminabili ma perlomeno accettabili.
Andando in bicicletta i rischi che si corrono sono enormi, non soltanto per i corridori. In Italia perdono mediamente la vita ogni anno oltre 250 persone, una vittima ogni 32 ore circa. I pedoni che perdono la vita nei centri urbani sono circa il doppio, oltre 600 ogni anno, mettendo in evidenza una realtà innegabile: le strade non sono fatte per gli utenti deboli della strada.
E - un po' come succede leggendo la Gazzetta dello Sport questa mattina - tendiamo a fare la narrazione di questa evidenza attribuendo sempre le colpe a qualcun altro o al destino, mai ai veri responsabili o alle cause effettive.
Negli incidenti stradali che coinvolgono ciclisti e ai pedoni le cause che tendiamo a indicare come prevalenti sono il comportamento indisciplinato dei ciclisti, il non uso del casco o delle pettorine fluorescenti, la scarsa visibilità e poi ovviamente l'immancabile destino; mai l'alta velocità delle automobili, il non rispetto dei limiti di velocità o l'inadeguatezza della sede stradale. Nelle corse agonistiche la narrazione è lo stessa, la colpa è dei corridori oppure più imponderabilmente del destino.
Come se in un finale di gara come quello di ieri mettere la colpa degli incidenti non fosse di nessuno, se non del caso.