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“La realtà è che ho 34 anni e non ho un contratto per il 2025. Sono vicino alla fine e devo accettarlo. La cosa con cui faccio fatica a convivere è il fatto che, se sono famoso, lo sono per le cose che non ho fatto, più che per quelle che ho realizzato. Oggettivamente, ho fatto abbastanza bene, considerando alti e bassi. Ho avuto una carriera di 15 anni, e non sono in molti a poterlo dire. La gente mi dice che dovrei essere orgoglioso di me stesso, e so che hanno ragione. Il problema è che non lo sono, e non so come esserlo. Questa è la cosa più difficile di tutte”.
È difficile essere testimone di tutto questo. Ho intervistato molti ciclisti professionisti, ma non ricordo nessuno che sia crollato davanti ai miei occhi. Conosco più o meno bene cosa succede prima e dopo una carriera nel ciclismo, ma non sono sicuro di aver mai visto il suo sgretolarsi in tempo reale, con tale crudezza. Tutti sanno che questo lavoro è precario, e tutti sanno che, prima o poi, la maggior parte dei ciclisti si ritroverà a lottare semplicemente per sopravvivere. È una cosa prevedibile, ma di solito crisi esistenziali di questo tipo non diventano uno spettacolo pubblico. Non ricordo di aver mai assistito a un tormento così profondo, e certamente non a lacrime vere. Il punto è che conosco Fabio Felline da quando era un adolescente.Anzi, no, correggo: lo conosco da quando era l’adolescente, che è tutta un’altra cosa. Felline è cresciuto a Torino, la mia città adottiva. Quando mi sono trasferito qui, nel 2008, dominava la scena juniores italiana e, benché non avesse ancora finito le scuole superiori, l’opinione comune era che fosse il “nuovo Paolo Bettini”. Era il migliore della generazione italiana del ’90, apparentemente destinato a raggiungere il vertice assoluto. Al compimento dei suoi 19 anni, Fabio Felline correva già per una delle migliori squadre under-23 di Bergamo, uno dei centri nevralgici del ciclismo in Italia. Nel 2009 è salito sul podio ben 24 volte, mettendo in difficoltà ciclisti con tre anni più di lui. Tuttavia, le regole del ciclismo italiano gli impedivano di passare al professionismo prima dei 21 anni. All’epoca, il protocollo prevedeva un minimo di due anni nella categoria under-23, e in apparenza sembrava una scelta sensata.
Apparentemente, perché Fabio era un talento precoce e straordinario. Non sorprende quindi che Mauro Gianetti, come molti altri esperti di ciclismo europeo, lo tenesse d’occhio da anni. Gianetti, all’epoca manager del team ProTour Footon-Servetto (evoluzione del precedente team Saunier Duval), si mosse con decisione.
Nel novembre 2009, Gianetti mise sotto il naso di Felline un contratto da professionista, proponendogli anche di ottenere una licenza spagnola per correre. La mossa fece infuriare la Federazione Italiana, che considerava Felline un elemento prezioso per la nazionale. Ma Gianetti, da buon svizzero, non era interessato alle formalità diplomatiche né a rispettare i dettami della Federazione.
“Questo creò un certo rancore”, ricorda Felline. “La Saunier Duval aveva avuto casi di doping molto noti con Riccò e Piepoli al Tour l’anno prima, e io stavo firmando con loro a 19 anni. Oggi, se sei bravo abbastanza, sei anche considerato grande abbastanza, e ci sono parecchi teenager nel WorldTour. All’epoca non era così, e prendere una licenza spagnola significava che non avrei potuto rappresentare il mio Paese. Ma non ci pensai molto. Mi stavano offrendo di essere pagato per correre con i ciclisti che avevo sempre visto in TV, e non vedevo l’ora”.
Quella licenza spagnola gli sarebbe costata, alla fine, 5.000 euro (una multa simbolica imposta dalla Federazione Italiana), ma Gianetti, nonostante dividesse le opinioni nel mondo del ciclismo, era indubbiamente perspicace.
Footon-Servetto aveva una licenza ProTour, ma un budget minimo e pochissimi corridori di livello. Erano praticamente invisibili nelle classiche, e il Giro fu una vera e propria via crucis. Solo quattro di loro riuscirono a concluderlo, nessuno salì sul podio né entrò nella top 20. In poche parole, erano o troppo giovani, o troppo vecchi, o semplicemente non abbastanza forti. Ovunque corressero, sembravano fuori posto. Con una sola eccezione degna di nota.
“Ero competitivo fin da subito. Mi sono piazzato decimo all’E3 prima di compiere 20 anni, e ho ottenuto piazzamenti nei primi cinque al Romandia e in Sardegna”, racconta Felline. “Poi, a maggio, ho vinto due tappe e la classifica generale al Circuit de Lorraine. Non era una gara particolarmente importante, ma per me fu un momento cruciale. Si svolgeva mentre il Giro era in corso, quindi se ne parlava in TV e sui giornali. Avevo appena compiuto 20 anni, e c’erano tanti ottimi corridori francesi”.
La vittoria in Lorena fu la prima della squadra dopo quattro mesi di sofferenze. Ora il Tour de France era all’orizzonte e, tra tutti i corridori della Footon, solo il veterano Giampaolo Cheula aveva mai preso parte a quella corsa. La squadra non aveva né un uomo di classifica né uno sprinter all’altezza, e Gianetti ne era perfettamente consapevole.
Sapeva anche che il ciclismo, prima di tutto, è una questione di visibilità per gli sponsor. E, a parte l’emergere di Felline, fino a quel momento Gianetti non aveva offerto molto in termini di ritorno d’immagine. La squadra rischiava una figuraccia totale al Tour, così Gianetti e il suo braccio destro Joxean Fernández Matxin decisero di giocarsi la carta Felline. Finalmente la stampa ciclistica aveva qualcosa di interessante da raccontare, e ne parlò a lungo.
Il corridore più giovane al Tour de France del 2009, il colombiano Rigoberto Urán, aveva 22 anni. All’epoca, quella era l’età minima standard, ma Urán, arrivato in Europa a 19 anni, era già un professionista temprato quando debuttò al Tour, con all’attivo ben 11 corse a tappe del ProTour.
Fabio Felline, al contrario, aveva appena superato i 20 anni nel 2010 e contava solo 29 giorni di gare professionistiche. Era un talento speciale, ma non aveva alcun motivo di essere alla corsa ciclistica più importante e dura del mondo. Avrebbe avuto bisogno di riposo e recupero, ma la Footon aveva bisogno di visibilità, e un ragazzo giovane e pieno di entusiasmo rappresentava la loro migliore occasione per ottenerla.
"E così mi ritrovai al Tour, e se devo essere onesto non capivo il perché", racconta Felline. "Quello che so è che la decisione di mandarmi lì non fu presa per motivi sportivi né pensando al mio benessere. Oggi, quando sento Gianetti e Matxin parlare di proteggere Pogačar, lo trovo piuttosto ironico. Non sto minimamente suggerendo di essere stato bravo quanto Tadej, e il ciclismo del 2024 è quasi irriconoscibile rispetto a quello del 2010. Ora i corridori iniziano da giovani, ma hanno accesso a un intero sistema di supporto. All’epoca non era così, e col senno di poi capisco che fu una scelta dettata da esigenze commerciali. Tuttavia, non ero pronto per competere a quel livello, e alla fine non fu per niente costruttivo".
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