PAURA DI VOLARE | Giro 2023 | Tappa 16 Monte Bondone

PAURA DI VOLARE | Giro 2023 | Tappa 16 Monte Bondone

Testo a cura di Ned Boulting e pubblicato su Rouleur Italia n. 06


Articolo pubblicato originariamente su Rouleur Italia n. 06

Ne La Montagna Incantata, il capolavoro di Thomas Mann del 1924, un giovane tedesco intraprendeva un viaggio di 1.000 chilometri per raggiungere Davos a partire dal porto commerciale di Amburgo.

Come nella maggior parte dei romanzi di Mann, il viaggio è profondamente allegorico e rappresenta un rito educativo di passaggio per il protagonista della narrazione, Hans Castorp. È la personificazione stessa del Bildungsroman, la tradizione letteraria tedesca che vede un personaggio intraprendere un percorso di illuminazione che culmina, nel bene e nel male, nella conoscenza di sé. 

Arrivato a Davos, Castorp finisce per incontrare un'ampia e variegata gamma di personaggi straordinari: dotati, belli, dissoluti, avari, virtuosi, ingenui, creduloni e intriganti. Tutte queste personalità disparate, un caleidoscopio metaforico della borghesia europea, sono dipinte da Mann con toni vividi, come se fossero illuminate dalla luce brillante delle montagne, messe a fuoco contro il bianco brillante delle cime innevate che le circondano. 

La montagna accresce l'intensità della loro storia, soffocandola con un'energia che deriva naturalmente dai contorni drammatici della terra, dalle cime vertiginose e dalla vicinanza al cielo. In un paesaggio dove nulla è piatto, si può soccombere alla gravità o opporsi ad essa. In basso o in alto. Sempre l'uno o l'altro.

Non è un caso che Mann, originario della piattissima Lubecca nel Nord della Germania, che sognava le vette del sud, abbia ambientato la sua storia in cima a una montagna magica. Le montagne nel romanzo di Mann, minacciano e promettono allo stesso tempo: si profilano all'orizzonte e richiamano il protagonista, ma esigono un prezzo molto alto. Le montagne sono inumane. Sono la natura libera e rappresentano una verità inalterata, spesso devastante. 

Ma voi sapete già tutto questo perchè seguite le gare di ciclismo su strada.

Quando le corse raggiungono le montagne, il gruppo subisce una profonda metamorfosi. Si spoglia dal suo guscio ed esce dalla crisalide che indossava all'inizio della salita: non è più una singola farfalla, ma un insieme di varietà diverse, ognuna delle quali porta un marchio distinto, con un profilo e un'apertura alare unici, che svolazza a un ritmo sottilmente in contrasto con le poche altre farfalle che la circondano. Insieme, il piccolo gruppo continua la sua instabile ascesa sulla montagna, volando sempre più vicino al sole.

Ed è qui che comprendiamo le farfalle per quello che sono.

In questo momento della gara, non c'è più confusione. I leader sono tutti isolati, gli unici sopravvissuti del loro genere, del loro clan. Da soli, ora si rivelano per quello che sono; e nel corso di una montagna, nell'arco di un Grand Tour di tre settimane, noi lontani collezionisti di farfalle ci sediamo e li osserviamo nei minimi dettagli, lepidotteristi col telecomando, finché non abbiamo identificato con soddisfazione le loro caratteristiche più disparate.

Almeida, bianco e nero, sembra incrollabile. Thomas, bianco e blu, scoppiettante di movimento. Roglič, giallo e nero, incrollabile. 

La verosomiglianza del paragone è straordinaria. Ciò che la montagna distilla dai corridori, quando li lascia lottare contro la gravità (il compito più immane di questo sport), è puro carattere. Non importa che la cronometro sia la "gara della verità", è in realtà la montagna a darci la più chiara comprensione di ciò che ogni uomo è disposto a sopportare. E lo fa costringendo i corridori a scrivere le loro autobiografie in sella ad una bici; riempiendo le pagine della nostra comprensione con ogni attacco lanciato, ogni attacco riportato e ogni volta che vediamo un corridore perdere la ruota e soccombere; un'intensità di sofferenza privata resa crudelmente pubblica dalla lente d'ingrandimento della telecamera della moto a fianco. 

Ho sempre avuto paura delle montagne. Temo il loro fascino e le loro dimensioni disumane. Credo di avere ragione a essere circospetto di fronte alla loro terribile presenza; incombono sulle gare ciclistiche e promettono un giudizio. Ma da quel giudizio arriva con chiarezza il successo del singolo e il fallimento del gruppo. Sono, in linea di massima, i demolitori dei sogni, che mettono fine ai sogni e spengono le possibilità e le speranze. La vita è molto più facile rimanendo a valle, nascosti nella nebbia della pianura, protetti dal caos delle città.

Le montagne servono al ciclismo per scoprire la nuda e cruda verità.

Articolo pubblicato originariamente su Rouleur Italia n. 06

Immagine di copertina: RCS Sport


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