Fra la fine della primavera e l’inizio dell’estate del 1990, l’Italia ospitò il Campionato mondiale di calcio, Gianni Bugno vinse il Giro d’Italia tenendo la maglia rosa dalla prima all’ultima tappa e Claudio Chiappucci vestì la maglia gialla, dopo quindici anni di digiuno italiano, cedendola a Greg Lemond a 24 ore dall’epilogo parigino. Se quell’estate occupa un posto importante nella mia memoria, però, non è tanto per questi eventi consegnati agli annali, quanto per il mio battesimo della strada sulle colline delle Langhe. Sabato 7 luglio 1990, alla vigilia della finale mondiale fra Germania e Argentina, feci due uscite in bicicletta di 2 e 11 chilometri. All’epoca avevo quattordici anni e decisi che la nascente passione per il ciclismo meritava di essere registrata su un diario. Fissai alcune regole che sono intatte dopo quasi sette lustri: segnare qualsiasi uscita in bicicletta di almeno un chilometro inserendo data, itinerario e chilometraggio. In questi 34 anni, incurante di qualsiasi innovazione tecnologica, ho continuato ad annotare le mie uscite in bicicletta su agende. È la prima cosa che faccio dopo la doccia post-allenamento o al rientro a casa dopo i brevi spostamenti cittadini. Nelle cinque agende che ho compilato finora non faccio alcuna distinzione fra l’utilizzo sportivo e quello trasportistico, fra la funzione ludica e quella utilitaria della bicicletta. Non lo faccio perché per me, molto semplicemente, questa differenza non esiste.
Fino al 7 luglio 1990 avevo pedalato solamente nei parchi della mia città. All’età di 4 anni, prima ancora di togliere le rotelle alle ruote, mio padre mi portava nel parco costruito sul terreno dell’ex mattatoio di Torino ed io pedalavo instancabilmente sulla pista a forma di otto che comprendeva un passaggio su una collinetta artificiale. Una mattina d’inverno, avvolto nel mio cappotto, pedalai senza sosta dalle 10 alle 12. Alquanto nebulosi nella mia memoria, questi ricordi sono ricostruiti grazie alle testimonianze di mio padre, la prima persona che ha vegliato sulle mie uscite in bicicletta. Queste pedalate infantili e pre-adolescenziali nel territorio circoscritto e protetto dei parchi cittadini non rientrano nelle statistiche. I numeri cominciano quando inizia la pratica del ciclismo su strada, in sella a una mountain bike Atala. Nel battesimo della strada dell’estate 1990 ebbi un maestro e complice, mio nonno Giovanni Destefanis. Il padre di mia madre era stato professionista negli anni Quaranta. Al Giro d’Italia del 1940 vinse la maglia bianca riservata ai ciclisti indipendenti giungendo ottavo nella classifica generale. Quel Giro fu il primo grande successo di Fausto Coppi che sei anni dopo sarebbe stato il suo capitano alla Bianchi. La Corsa Rosa finì all’Arena di Milano il 9 giugno e il giorno successivo Benito Mussolini annunciò l’entrata in guerra dell’Italia. Chiusa la carriera con una mezza dozzina di successi, prevalentemente in corse in salita, dal 1948 al 1983 mio nonno gestì un negozio di vendita e assistenza di biciclette, senza mai pedalare al di fuori dei confini cittadini.
Fuoco sotto le cenere per 42 anni, la passione di mio nonno per la bicicletta ritornò nell’estate del 1990. In quelle prime uscite di pochi chilometri, intervenne con gentilezza per correggere la serie infinita dei miei sbagli: “Bevi! Non bere così tanto tutto insieme, non sei un cammello! Cambia rapporto quando senti che la pendenza aumenta! Quando curvi in discesa inclina corpo e gamba verso l’interno in modo da avere un migliore equilibrio! Procediamo in fila indiana! Dosa bene lo sforzo! Memorizza i luoghi dove si trovano le fontane! Impara a usare il cambio!”. Cominciare a pedalare in un luogo così bello e con un tale maestro fu una vera fortuna. Aumentando progressivamente il raggio d’azione, dopo un mese di uscite quasi quotidiane, superai per la prima volta la soglia dei 50 chilometri, cosa che mi sembrava impossibile all’inizio di quell’estate. I dati di quel 1990 dicono che terminai la stagione con 506 chilometri.
Raccontare una passione partendo dai “freddi” numeri può sembrare una contraddizione, ma il fatto che, a differenza degli sport circoscritti in un campo da gioco, una piscina, una palestra e una pista, il ciclismo si svolga con le dinamiche di un viaggio lo rendono il più narrativo di tutti gli sport. Sfogliando quei diari emergono potenti i ricordi di quel tempo ormai remoto in cui la bicicletta divenne uno strumento di autonomia, un mezzo per allargare gli orizzonti oltre i confini della mia città. Nel 1991 iniziai a misurarmi sulle salite della collina torinese e su quelle prealpine. L’8 giugno mi arrampicai con la mia mountain bike sulla Colletta di Cumiana per vedere transitare il Giro d’Italia. L’agenda certifica i 68 km dell’itinerario, nelle schegge di memoria ci sono un sole splendente con una temperatura che anticipa l’estate, la maglia verde di Iñaki Gaston e un rapido ritorno a casa per vedere in televisione l’arrivo della tappa a Sestriere. Alla fine del mese mi venne regalata una bicicletta da corsa, anche questa volta un’Atala. Il 14 luglio mi misi per la prima volta un numero sulla schiena nella Torino-Cocconato, una pedalata cicloturistica ad andatura controllata con finale agonistico in salita. Tagliai il traguardo quindicesimo con un paio di minuti di distacco dal vincitore. Ero la matricola della mia squadra e venni “adottato” dai ciclisti più anziani che si prodigavano nel darmi consigli su come affrontare le cronometro o le gare in circuito. Quel secondo anno di ciclismo su strada si concluse con 2422 chilometri.
I diari su cui registro la mia attività ciclistica si arricchirono delle salite (solo se superiori ai 2 km) e di altre statistiche, per esempio i tempi di scalata della Mortera che si trova a una trentina di chilometri da Torino. Domenica 4 luglio 1993 affrontai per la prima volta le Alpi in una prova cicloturistica ad anello con partenza e arrivo a Claviere e la scalata al Col de l’Echelle e al Col de Montgenèvre. Qualcuno ha scritto che solo quando si è giovani si può sentire quello che solo da adulti si può capire. Rileggere la breve cronaca di quel giorno ne fa riemergere le sensazioni, su tutte il piacere di pedalare in alta quota e la capacità di dare il meglio sulla distanza. Oggi comprendo che quei 74 km pedalati dal ciclista che ero sono il seme del ciclista che sono: un cicloviaggiatore che ama le salite e le lunghe distanze e dà il meglio quando il termometro segna almeno 25° C. Personalmente, alle soglie dei cinquant’anni, l’analogia fra estate e bicicletta è ormai inevitabile. Attendo con ansia i giorni caldi e lunghissimi della prima per poter godere a pieno della seconda. Nell’estate successiva, conseguito il diploma e in attesa di iniziare l’università, riuscii ad allenarmi in maniera più consistente e, alla fine dell’estate partecipai alla cicloturistica Torino-Sanremo che, con i suoi 228 km, resterà per 27 anni il mio più lungo percorso in sella. Per tutti gli anni Novanta il mio apprendistato continuò con la scoperta delle salite di Piemonte e Liguria, con qualche lunga distanza, qualche buon risultato nelle prove a cronometro e pessime performance nelle gare in circuito.
Per continuare a leggere l'articolo di Davide, abbonati a Rouleur Italia