Articolo tratto da Rouleur Italia 21 - Tour de France - disponibile per acquisto singola copia qui
Sneakers e pantaloni bianchi, abbronzatura e sorriso aperto. Daniele Bennati indossa una polo blu scuro che, all'ombra, sembra nera, richiamando il suo soprannome "Pantera" ed evocando agilità e potenza. Le 54 vittorie in carriera, tra cui sei tappe alla Vuelta a España, tre al Giro d’Italia e due al Tour de France, testimoniano il talento che lo ha reso uno dei corridori toscani più vincenti della sua generazione.
Rouleur lo ha incontrato in un tranquillo pomeriggio estivo ad Arezzo, dove è nato e vive. Insieme ci siamo poi diretti a Castiglion Fiorentino, dove è cresciuto e dove vivono i suoi genitori. La casa di famiglia, grazie al lavoro scrupoloso di suo papà Moreno, che ha corso fra i dilettanti, è un piccolo museo che conserva biciclette, coppe, medaglie, maglie, foto e ritagli di giornale. Qui Bennati torna spesso per ricaricarsi, ed è il luogo ideale per parlare degli anni da professionista, dal 2002 al 2019, delle sue tante vittorie – fra cui il Giro della Toscana e il Giro del Piemonte – e di come vede il ciclismo di oggi. Da un punto di vista molto speciale, quello del commissario tecnico della nazionale italiana.
Una delle tue vittorie più belle è stata al Tour. La foto a braccia alzate in maglia Lampre con la Tour Eiffel alle spalle è iconica. Quanto è stato difficile riuscirci?
Vincere al Tour significa tanto per un corridore, perché è estremamente difficile conquistare una tappa. Realizzare questo sogno, che avevo fin da bambino, è stato incredibile. Ricordo che il mio primo direttore sportivo ci diceva sempre che non contava tanto vincere da giovani, ma che il vero obiettivo era indossare la maglia gialla. Anche se non l’ho mai indossata, sono riuscito ad aggiudicarmi due tappe. La vittoria di Parigi è speciale. Da italiano, mi è sempre piaciuto tanto anche il Giro d’Italia, ma il Tour è la corsa più importante, dove competono i corridori più forti al mondo. Questo rende le vittorie al Tour ancora più memorabili.
La casa dei tuoi genitori conserva i tesori della tua carriera. Com'è nato il tuo legame con la bicicletta?
Fin da piccolo ero eclettico: giocavo a calcio, ma mi divertivo anche con la BMX. Ero appassionato di diverse discipline, e questa varietà mi ha permesso di diventare un ciclista completo. La BMX e il fuori strada mi hanno insegnato molto, lezioni che mi hanno accompagnato per tutta la mia carriera. Anche il calcio mi appassionava, ma tutto è cambiato nel 1980, quando mio nonno mi ha regalato la prima bici da strada. Quella bici è ancora qui, un simbolo del momento in cui ho deciso di lasciare il calcio per dedicarmi completamente alla bicicletta.
Cosa ti ha convinto a lasciare il calcio che ti piace ancora tanto?
La prima gara che ho fatto l’ho vinta, ed è stato il “la” che mi ha fatto decidere di lasciare il calcio. Avevo fatto una sorta di scommessa coi miei familiari. Dicevo: “vincerò la prima gara”. Loro aggiungevano che era impossibile perché gli altri correvano già da due o tre anni e io non avevo esperienza, non ero abituato. È iniziato tutto da lì.
Sei stato uno dei corridori toscani più vincenti della tua generazione. Come è nato il soprannome Pantera?
Dopo l’ultima tappa del Tour vinta sugli Champs-Élysées, un giornalista di Arezzo ha descritto la mia volata come quella di una pantera in azione. Questo soprannome è rimbalzato sui quotidiani nazionali ed è diventato una parte di me. Nonostante io non sia più un corridore, ancora oggi qualcuno mi chiama così.
Sul braccio hai un tatuaggio con scritto: “Tutto possa in colui che mi dà la forza”. Ci racconti come è arrivata sul tuo corpo?
Ho fatto questo tatuaggio nel 2016, se non sbaglio. Questo versetto della Bibbia, Filippesi 4,13, mi è sempre piaciuto e mi è rimasto ben impresso nella mente. In precedenza, per alcuni anni avevo fatto scrivere solo il numero del versetto sulla bicicletta. C’era anche su quella con cui ho vinto a Parigi. Tutto è nato nel corso della convalescenza dopo che mi ero fratturato due vertebre alla Milano-Sanremo. Dovevo star fermo due mesi con il busto. Ho deciso di passare il tempo facendomi qualche tatuaggio, il primo è stato questo.
È un'affermazione di fede e di fiducia per superare qualsiasi difficoltà che incontriamo nella vita. Quale significato ha per te?
Durante la mia carriera ho affrontato vari infortuni e incidenti. È stato proprio durante i momenti difficili che ho imparato di più, e sono cresciuto come persona. Ogni difficoltà mi ha reso più forte e mi ha insegnato che, anche quando sembra che siamo da soli, non lo siamo mai veramente. Questa frase racchiude il senso di quei momenti difficili e la consapevolezza che possiamo superarli. Sento di avere imparato di più dalle sofferenze che dalle gioie e dalle vittorie.
Sei stato un campione, un modello per gli altri ciclisti. Cosa ti piacerebbe avere lasciato come eredità?
Un aspetto cruciale è la capacità di risollevarsi ad ogni caduta. Questo concetto è una metafora concreta della vita sportiva. Oltre alle cadute fisiche, ci sono anche altre sfide, come le tendiniti o problemi più seri, che possono impedirti di svolgere la tua attività. Ripartire da zero a ogni difficoltà non è affatto semplice. Un aspetto molto importante è la capacità di rialzarsi, e ripartire più forti di prima.
Pensi che la maglia azzurra abbia avuto un ruolo formativo per te?
Essere commissario tecnico della Nazionale è il frutto di un percorso che ho costruito nel tempo. Da atleta, mi sono sempre sentito la maglia azzurra cucita addosso, anche se in alcuni periodi ho vissuto molte delusioni.
La Nazionale ha sempre fatto parte di me. La prima volta che ho vestito la maglia azzurra avevo 17 anni e ho partecipato al mio primo Mondiale a quell’età. Indossarla è sempre stato un grande onore, e oggi, ricoprire il ruolo di commissario tecnico è la realizzazione di un sogno. Ma è un ruolo fatto di scelte. Devo selezionare i corridori e, purtroppo, dire di no a qualcuno. Non posso portare tutti, e questa è la parte più difficile.
Come hai imparato a parlare con i ragazzi di oggi?
Ci si parla. Fortunatamente, la tecnologia può essere sia una complicazione che un vantaggio. Quando loro sono in giro per il mondo, o ai raduni in altura, possiamo fare le videochiamate. Così possiamo rimanere a stretto contatto anche a distanza.
Quello che è cambiato è senza dubbio l’approccio e la mentalità. Ho dovuto studiare come affrontare determinati argomenti con le nuove generazioni, perché ovviamente non ragionano come facevo io alla loro età. La cosa più sbagliata che si può fare è dir loro: “ai nostri tempi facevamo così”.
Qual è la sfida più impegnativa ora che sei CT?
Per ora, non ho incontrato sfide insormontabili. Il momento più difficile è quando devo fare le telefonate scomode. Chiamare un corridore e dirgli: “Ok, ci troviamo sabato alle 7 in ritiro prima del Mondiale” è facile, ma telefonare a uno, due, tre, quattro ragazzi e comunicare che la mia scelta è caduta su altri corridori è sempre molto complicato. Quando arriva quel momento, devo argomentare bene il motivo per cui non sono stati convocati. Questa è la sfida più grande.
Quali obiettivi principali ti sei prefissato?
Può sembrare banale, ma l’obiettivo di ogni commissario tecnico è ottenere risultati e portare a casa qualcosa di importante. Nel ciclismo, però, vince uno solo. In questo periodo storico, stiamo assistendo a un fenomeno che non avevamo mai visto prima, con alcuni atleti che fanno davvero la differenza. Le sfide più difficili sono comunque le più belle.
Come hai allenato la forza mentale per restare tanto a lungo ad alti livelli?
La parte psicologica è fondamentale per un atleta professionista, soprattutto per un ciclista. In un Grande Giro, la fatica fisica diventa automaticamente mentale. Ai miei tempi non avevamo il supporto psicologico che gli atleti hanno oggi. Molte squadre ora hanno uno psicologo o un mental coach. Questa figura è diventata comune verso la fine della mia carriera. Nei miei ultimi anni di gare, ho tratto beneficio da questo tipo di supporto, specialmente dopo gli ultimi due incidenti importanti. Mi hanno aiutato a superare quei momenti difficili.
Una bella amicizia ti lega a Jovanotti, che rapporto hai con la musica?
La musica è sempre stata una presenza costante nella mia vita, anche se non mi considero un esperto. Ascolto ciò che trovo orecchiabile e che mi piace. L'amicizia con Lorenzo mi ha reso un suo grande fan. Da quando ero un corridore professionista fino ad oggi, apprezzo la musica di vari generi.
Non avete mai fatto un viaggio cicloturistico insieme, ma lo avete in programma?
Lo scorso anno, dopo il suo ritorno dal viaggio in Colombia, mi ha detto che avrebbe voluto fare con me il coast to coast negli Stati Uniti. Purtroppo, però, ha avuto quell’incidente maledetto. Io sono disponibile, ma ora lui deve rimettersi al cento per cento. Quando sarà pronto, vedremo di pianificare qualcosa insieme.
E per quel che riguarda la tua amicizia con l’ex CT della Nazionale di calcio Roberto Mancini?
Una volta mi ha invitato a Coverciano, dove ho trascorso una giornata con mio figlio seguendo gli allenamenti e parlando con i preparatori. Ero curioso di sapere quali lavori facessero i calciatori. A volte sento Roberto, che è anche un grande appassionato di ciclismo.
Questo è l'anno olimpico. In che modo è diverso dagli altri?
È un anno importante e difficile, con l'Olimpiade come primo grande appuntamento. Ho già in mente il terzetto per la formazione, anche se è difficile scegliere solo tre atleti. Da atleta non sono mai riuscito a partecipare ai Giochi, esserci come CT quest'anno è una grande emozione. Inoltre, l'evento si svolge a Parigi, una città che mi ha portato fortuna in passato visto che ci ho vinto la tappa conclusiva del Tour.
Ti piace il percorso?
Sì, mi piace molto. È spettacolare e molto lungo per una prova olimpica, con solo un gruppo di partenza di circa 80 corridori. Questo significa un gruppo molto ridotto su una distanza molto lunga, rendendo la gara molto complicata e difficile da interpretare. Ma il tracciato è bellissimo, specialmente il finale con tre passaggi da Montmartre è molto caratteristico. E l'arrivo vicino alla Tour Eiffel sarà scenograficamente fantastico.
Come condividi la passione per lo sport con tuo figlio?
Francesco ha 16 anni e giocava a calcio, ha dovuto smettere a causa di problemi alle ginocchia. Adesso si è preso una pausa. A volte guardiamo le partite di calcio insieme. Gli piace il ciclismo, anche se non ha la stessa passione che avevo io alla sua età. Ogni tanto andiamo in bici insieme, sia in gravel che in mountain bike. Sta studiando, è al secondo anno di superiori. Viene spesso con me alle gare, è stato alla partenza del Giro d’Italia e anche a Roma. Vuole esserci anche alla partenza del Tour da Firenze, e io ne sono contento.
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